Chiesetta Romanica dei Santi Giovanni e Marziale

Vicende storiche, struttura architettonica e apparati decorativi

L’odierno edificio della chiesa di San Marziale, a parte il crollo del campanile e la demolizione della gradinata d’accesso, è sostanzialmente quello risultante da una ristrutturazione realizzata tra la seconda metà del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento. Esso si presenta con pianta a croce latina con un’unica navatella, due cappelle laterali e abside quadrata. La facciata è a capanna con semplice ingresso rettangolare, su cui si trova l’occhio aperto dopo la visita pastorale del 1541. La linearità monotona delle pareti di settentrione e meridione, prive persino di finestre, è interrotta dallo sporgere delle due cappelle laterali. Ad est è l’abside quadrata con contigua sacrestia sul lato sud. L’interno ripropone la struttura perimetrale con un’unica navata, terminante attraverso l’arco trionfale nell’ abside quadrata con volta a crociera e le due cappelle laterali con gli altari dedicati alla Beata Vergine e alla Vergine del Rosario (quest’ultimo in origine intitolato a Sant’Agata); il tetto della navata è a capriate. Oltre allo splendido polittico, dipinto da Francesco Badile intorno al 1535 con le statue lignee di San Giovanni Battista, San Marziale e Sant’Antonio Abate, preziosi documenti sono gli ampi brani d’affreschi presenti sull’arco trionfale, sulle pareti e sulla volta dell’abside [g.s.].

Le vicende storiche della chiesa

La vecchia chiesa di San Marziale sorse molto probabilmente come parziale o totale ristrutturazione di un edificio preesistente, documentato almeno fin dal secondo decennio del secolo XIII ma presumibilmente già presente fin dal secolo precedente; in seguito, in una pergamena del 1268, questa viene pure espressamente ricordata con il titolo di Sancti arciani. Di questa chiesa tuttavia non sappiamo nulla, anche se dobbiamo presumere che si trattasse d’una cappella soggetta alla pieve di San Floriano. Le prime notizie che ricaviamo dalla visita pastorale del vescovo Ermolao Barbaro nel maggio del  1458, si riferiscono già alla nuova chiesa, ancora in fase di costruzione e risulta retta da don Iohannes de Alamania che officia pure in una dipendente cappella «in Monte», probabilmente San Giovanni in Monte Loffa. La chiesa essa appare ben strutturata con tanto di tabernacolo e di fonte battesimale, dato che è parrocchiale, ma è ancora sprovvista della sacrestia, mentre il campanile non è stato ancora terminato; annesso v’è il cimitero ben protetto. Le prime visite del Cinquecento non sono particolarmente prodighe di notizie significative sulle condizioni della chiesa di San Marziale, di cui ora è rettore il nobile don Paolo Maffei che si fa sostituire nell’esercizio da vari cappellani. Si può comunque intuire che la ristrutturazione dell’edificio in gran parte è stata ultimata. L’altare maggiore è ancora sprovvisto della pala prescritta, che risulta essere presso Franciscus Badilla [ ... ], cioè il pittore Francesco Badile, che la sta dipingendo. Nel 1541 i lavori si stanno avviando a felice conclusione, eppure già sembrano non rispondere ai bisogni della gente di Breonio che chiede di poter allungare la parrocchiale e d’essere aiutata in questo dal parroco. Se il progetto sia stato in seguito realizzato o meno non sapremmo dirlo e comunque non ne abbiamo notizie specifiche e nemmeno ne abbiamo rinvenuto i segni sulle murature. Piuttosto si potrebbe ipotizzare nei decenni successivi una sopraelevazione delle murature con conseguente rifacimento della volta absidale, i lunotti e le vele della quale sarebbero stati anche affrescati insieme alle  pareti inferiori dove andarono coperti i riquadri votivi moroniani, eseguiti fra il 1510 ed il 1513. È questo l’assetto definitivo della chiesa, così come può essere ammirata oggi: questo anche perché successivamente aveva preso avvio il progetto per la costruzione di una nuova chiesa, più ampia e consona alle esigenze della comunità di Breonio in crescita demografica, che verrà realizzata in altro sito nella prima metà del XVIII secolo.

Il polittico dell’altare

Importante esemplare di scultura lignea veronese della prima metà del Cinquecento, rarissimo anche in considerazione della sua quasi totale completezza e del discreto stato di conservazione, è il polittico a due ordini ancor oggi conservato nel presbiterio di San Marziale. L’ordine principale è occupato da tre nicchie scompartite da lesene entro cui campiscono le figure a tutto tondo di San Giovanni Battista, San Marziale e Sant’Antonio Abate: le tre predelle dipinte nello zoccolo, intervallate dai quattro Dottori della Chiesa dipinti invece sui plinti sottostanti le lesene, si riferiscono ai tre santi e raffigurano la Predica del Battista, un Miracolo di San Marziale e (a giudicare dai pochi resti di pittura trattandosi del riquadro peggio conservato del complesso) le Tentazioni di Sant’Antonio abate. Sopra quest’ordine, sono le scritte coi nomi dei santi e, in corrispondenza delle lesene, quattro tavolette pure dipinte con la raffigurazione dei Simboli degli Evangelisti. L’arte dell’intaglio ligneo ritorna nell’ ordine superiore, anch’esso scompartito da lesene e occupato da tre formelle intagliate a basso aggetto e policromate raffiguranti rispettivamente l’Incontro di Gioacchino ed Anna, l’Adorazione dei Magi e l’Annuncio ai pastori. Completa il complesso in alto il timpano, dipinto con la figura del Padre Eterno, e ai lati due figure intagliate a tutto tondo di Angeli porta-cero. Non ancora preso in considerazione dagli studiosi, nonostante il recente accendersi dell’interesse per la scultura del Rinascimento a Verona, il polittico è un interessante documento del momento di passaggio dal Rinascimento quattrocentesco (cui si collega la struttura dell’insieme che sembra obbedire alla sensibilità del maestro intagliatore, anche se sostanzialmente resta legata agli schemi dei polittici dipinti del Maestro del Cespo di garofano, cioè di Antonio Badile secondo) alle novità della maniera tosco-romana ed emiliana, sulle quali invece il pittore responsabile delle parti dipinte si mostra già aggiornato, come dimostrano le sciolte figure dei Dottori della Chiesa e le storiette nella predella. La visita pastorale del 1535, in cui si dice che la pala è in corso di esecuzione nello studio di «messer Franciscus Badilla [ ... ] qui abitat Verone in loco dicto il corso», getta finalmente luce sulla paternità di questo manufatto, già dubitativamente attribuito, almeno per quanto riguarda le parti dipinte, a Nicola Giolfino. Francesco Badile secondo (Verona 1467 ca.-1544) è noto dai documenti come intagliatore oltre che come pittore: conosciamo inoltre il suo affetto per il nipote Antonio terzo (1518-1560), figlio del fratello Girolamo e suo erede universale. L’evidente disparità tra la cultura arcaica dell’intagliatore, rispetto alla sensibilità più moderna del pittore, impone di allargare ad almeno due mani l’esecuzione dell’ancona, secondo del resto modalità produttive ben documentate nell’area veronese del tempo soprattutto per quanto riguarda le grandi botteghe dinastiche qual è appunto quella dei Badile. Si tratta cioè di riferire il complesso non solo a Francesco, autore della carpenteria lignea e delle figure intagliate, ma anche al suo allora ancor giovane nipote pittore Antonio: un confronto con le opere dipinte da quest’ultimo ancora. nel quarto decennio del secolo, dalla Pala Festo di Castelvecchio alla Madonna del santuario dell’Uva Secca di Povegliano (1539), suona del resto di conferma, come notiamo ad esempio confrontando il Padre Eterno dipinto nel timpano di Breonio con quello della Pala Festo. [e.m.g.]

GLI AFFRESCHI NEL PRESBITERIO

Nel 1964, in occasione del restauro architettonico dell’antica San Marziale, sono emersi sulle pareti del presbiterio, sotto i lunettoni e la volta affrescati nella seconda metà del Cinquecento, non solo altri resti della decorazione cinquecentesca, ma anche importanti testimonianze della pittura rinascimentale, attribuite al pennello di Francesco Morone (Verona 1471-1529). Si tratta di riquadri votivi, accompagnati da scritte che documentano l’epoca di esecuzione ed il nome dei committenti, che raffigurano immagini di santi inquadrati entro edicole scompartite da paraste e architravi decorate che, come si intuisce da alcuni frammenti, continuano sotto la decorazione affrescata delle lunette sovrastanti. Sulla parete di sinistra il primo riquadro raffigura i Santi Rocco, Cristoforo e Sebastiano e reca i resti di una scritta sulla quale è possibile leggere soltanto maggio 1513; il secondo, San Marziale, è datato 12 maggio 1513 e reca il nome dell’offerente, Dorotea moglie di Francesco de Ioanegrando; il terzo, San Giovanni Battista, è datato 13 maggio 1513 ed è stato offerto da Francesco Marchioris de Bonatis. Sulla stessa parete segue un riquadro più tardo, con i Santi Silvestro e Gregorio. Sulla più degradata parete di destra invece, con piccoli resti che attestano che il ciclo era in origine più ampio, campisce isolato un Sant’Agapito datato al 10 maggio 1510 e donato da Battista quondam Giovanni Graziadei. In questo caso il santo campisce non contro ariosi paesaggi ma di fronte ad un dossale marmoreo e si erge sopra un esagono di pietra, mentre l’architettura che lo circonda è diversa, con paraste decorate a semplici specchiature marmoree e non a minute grottesche: ne consegue, rispetto alla scioltezza dei santi sulla parete di fronte, una maggiore iconicità monumentale, di stampo ancora quattrocentesco, che bene si spiega con la datazione anticipata di tre anni e che documenta il salto verso forme figurative di più accusata naturalezza che, in questi anni fondamentali per l’arte veronese del Rinascimento, caratterizza artisti come il Morone e il suo compagno Girolamo Dai Libri. La qualità che distingue i riquadri di Breonio, di controllata accuratezza formale, porta a confermare l’autografia del ciclo, a differenza di altri cicli moroniani sparsi nella provincia veronese per i quali è invece ipotizzabile la presenza in loco degli aiuti di bottega: purtroppo, a San Marziale, resta da verificare la presenza di simili decorazioni anche nella navata, dove tuttavia piccoli lacerti leggibili sulla parete di sinistra (invero di qualità apparentemente meno elevata) autorizzano nel far sperare la possibilità di nuove scoperte. [e.m.g.] 

GLI ALTRI AFFRESCHI CINQUECENTESCHI

Nel 1964, in occasione del sopra ricordato restauro architettonico dell’antica San Marziale, la Soprintendenza è intervenuta sulle decorazioni affrescate risalenti alla seconda metà del Cinquecento già allora a vista sui lunettoni e sulla volta del  presbiterio, e al tempo stesso, indagando sulle sottostanti pareti, ha rivelato l’esistenza non solo degli affreschi moroniani, ma anche di altri resti della pittura cinquecentesca la quale, in origine, doveva aver occultato del tutto la precedente decorazione. Sulla parete sinistra, in basso, i riquadri di Morone attualmente precedono quello più tardo raffigurante i Santi Silvestro e Gregorio; nel lunettone sovrastante è raffigurata la Crocefissione di Cristo. La parete dietro l’altar maggiore presenta invece, in basso a sinistra, una raffigurazione di Cristo Ecce Homo cui corrisponde a destra, attorno al marmoreo tabernacolo per gli olii, un finto tendaggio; in alto, nel lunettone, è Cristo al Limbo. Il lunettone della parete destra contiene invece, tagliato dalla finestra, un riquadro con la Resurrezione di Cristo. Completano il ciclo i Quattro Evangelisti affrescati nelle vele della volta e i Busti di Profeti, anche questi ultimi emersi sotto gli scialbi nel 1964, che decorano invece il sottarco della cappella, il tutto raccordato da finte architetture e da festoni di frutta e di fiori. Gli affreschi, quelli naturalmente allora in vista, sono per la prima volta ricordati nel 1720 da Giovanni Battista Lanceni che, pur senza offrire attribuzioni, li ricorda come «opere di qualche gusto», ed entrano più concretamente nella storiografia locale solo nel nostro dopo-guerra, con gli studi della Cuppini cui si deve la corrente attribuzione a Domenico Brusasorci (Verona, 1515-1567): una attribuzione questa certo motivata dallo stile di una decorazione di gusto pienamente manierista che palesemente si rifa da un lato a certe eleganze emiliane, dall’altro, e con più forza, alla cultura mantovana che fa capo a Giulio Romano, ma che poi non trova conferma nella qualità stilistica, per certe grossolanità grafiche che caratterizzano il suo autore e per la propensione dello stesso ad un cromatismo dominato da note di rossi ferrosi e di verdastri estranei alla  raffinata tavolozza del Brusasorci. Non è senza significato (e in un certo senso questo fatto sta dietro, giustificandolo, alI’errore attributivo) che i momenti disegnativamente più alti del ciclo, innanzi tutto le quattro bellissime figure di Evangelisti sulle vele della vola dipendano strettamente da modelli giulieschi messi in voga dalle stampe: gli Evangelisti derivano infatti da quelli incisi da Agostino Veneziano su disegno di Giulio Romano; i soldati sdraiati a destra del sepolcro nella Resurrezione di Cristo sembrano pure dipendere da analoghe fonti figurative ben diffuse a Verona., come dimostra il comparire delle stesse identiche figure nella pala di questo soggetto dipinta nel 1559 da Dionisio Brevio per il duomo di Cologna Veneta. Tra parentesi, se il Brevio non può per la sua più modesta qualità essere identificato con l’artista attivo a Breonio, è da dire che di questo poco noto artista veronese conosciamo il ruolo importante svolto nella diffusione a Verona dei modelli della ‘maniera moderna’: nel 1530 infatti era fatto ricercare dal duca di Mantova perché fuggito da quella città dopo aver rubato dei disegni di Giulio.

Sintesi dei testi di Giuliano Sala ed Enrico Maria Guzzo tratti da Fumane e le sue comunità, II, Breonio Molina, a cura di G. Viviani, Fumane 1999, pp. 137-152